Da bambina era una gioia sentire suonare le sirene dell’acqua alta. Voleva dire stare a casa da scuola. Giocare con i piedi nell’acqua, vederla entrare nell’androne di casa e pescare dalle scale.

Una vera pacchia per noi e per i turisti. Un gioco. Una cosa magica. Una città che viene semi-sommersa dall’alta marea. Una città dove scompaiono le strade. Una città dove andare con le gambe e i piedi a mollo. I negozi, le calli, i campielli, tutti sott’acqua.

Vai a fare la spesa e a lavorare nuotando. Ogni ritardo è scusato, ogni dimenticanza, ogni impegno annullato, annullate le regole, la quotidianità, tutto fermo.

Pausa acqua.

Ce ne sono di alte e di meno alte. Quella famosa di novembre nel 1966 fu memorabile.

Ricordo il pizzicagnolo che, nuotando con un braccio sospeso fuori dalle onde, ci portava a casa da mangiare. Lo vedevo dalla finestra. Si era messo gli stivaloni da pesca, quelli ascellari, ma non bastavano. Anzi lo rallentavano e lo facevano andare a fondo. C’era vento e la marea continuava a salire. Mi vedevo già con tutta la famiglia sul tetto. Compreso il gatto e la vecchia Irina che non faceva che dire rosari alla Madonna. A me veniva da ridere, perché la Madonna era l’unica che si sarebbe salvata, lì, dritta in cima al campanile. Il vento soffiava e trascinava onde dentro il rio. Le barche erano quasi tutte andate a fondo, si erano riempite d’acqua e una alla volta si erano arrese. Era un evento straordinario. Avevo il naso incollato ai vetri per non perdere lo spettacolo. I portoni delle case non si vedevano quasi più. Immaginavo che forse Venezia stava davvero annegando. Se la marea non si fosse fermata avremmo dovuto abbandonare l’isola, ci sarebbero venuti a prendere con delle navi. Mio padre continuava a mettere dei segni con la penna sul muro dell’androne e ogni ora andava a controllare se l’acqua cresceva.

La mamma controllava i viveri e faceva il conto di quanti giorni saremmo potuti stare senza spesa.

La mia scuola? La cattedra della maestra? La lavagna? Chissà se stavano già navigando…

Poi ci chiamavamo con l’Anna, la mia compagna di banco che aveva la casa a piano terra. Una beffa. Rideva. Diceva che stava andando in canotto in bagno e in cucina, diceva che i materassi galleggiavano benissimo, che giocava a battaglia navale con le pentole facendole sembrare delle navi da guerra. La invidiavo. Volevo andare da lei a godermi quel parco di divertimenti che mi sembrava essere casa sua in un momento tragico per gli adulti. Ma nulla è tragico a Venezia. Questa è la sua dote principale. Nulla è tragico neppure per i veneziani che continuano a dire che la vita è una fatalità.

Il concetto di fatalità o “fataità” mi è entrato dentro fino in fondo alle viscere.

Fa parte del DNA dell’isola. Lo sperimentavo ogni giorno nel mio essere.

Cossa vistu, cussì e a ze. Cosa vuoi è così, fa parte del gioco dell’esistenza.

L’acqua del divertimento era soprattutto alta. C’erano dei punti dove era più alta. In Piazza San Marco dove zampillava subito dai tombini e in Campo San Beneto non si poteva proprio passare. Se non c’erano passerelle e gli stivali non erano abbastanza lunghi si montava “in groppa” ai portatori con stivaloni alti fino alle anche, oppure sui loro carretti. Un attimo di stupore. Un piccolo obolo per il favore e hop!, si saltava sulla pietra alta e asciutta. Intorno a noi erano scomparse le fondamenta, le calli, i ponti si rimpicciolivano, i pozzi venivano circondati da un lago. C’era un’atmosfera fiabesca da racconto di Andersen.

Una città che affonda e quasi scompare e poi riappare. Credevamo fosse il soffio di un invisibile Dio del mare che faceva arrivare “la grande onda”. I gatti e Ciro in prima fila, stavano immobili ad aspettare la fine del diluvio universale. Dritti con le code all’insù e i baffi a fiutare l’aria, quasi tutti in cima ai tetti o sui cornicioni. Anche la scuola veniva allagata e il giorno dopo c’era un piacevole odore di sale su tutti i banchi.

Quando suonavano le sirene che erano quelle della guerra, per chi abitava i piani bassi scattavano la sveglia e l’appello.

Bisognava “tirare in salvo” la roba preziosa. Salvare il frigorifero, la lavatrice, i mobili d’epoca, il televisore, divani, cuscini e materassi. Tutto in alto.

La telefonata all’ufficio maree.

“Quanto cresce?”, era la domanda.

“Quando cala?”.

L’acqua ci bloccava in casa. Calata la marea mi piaceva correre a perdifiato cantando le canzoni di montagna che avevo imparato da mia madre. Non sapevo che alcune fossero canzoni di guerra. La mia preferita iniziava con “Andar pel vasto mar…” e così via”, poi c’era “SioraZanze” che era “debole de suste” che mi faceva ridere e “Arrivano i barbari a cavallo”. Mi aprivano il cuore in un modo che non sono più riuscita a sperimentare.

Anche il vento mi piaceva a Venezia. Del vento mi divertiva ascoltare il sibilo attraverso le fessure delle gelosie. Quel sibilo che la mamma imitava quando mi raccontava le fiabe del nord. «UUUUHHHH… FSSSSSHHHHHH», faceva, per simulare il vento gelido che spazza la neve dove camminano i lupi e volano le streghe.

Carmela Cipriani

 

 

 

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