Venezia vista dai tetti per un bambino è come una storia sospesa nell’aria.

È un altopiano di tegole, da cui traboccano comignoli e minareti. Un altopiano che ho imparato a conoscere bene da bambina. Quando, dopo aver vissuto nella casa con il giardino, ci eravamo trasferiti in un’altra, un appartamento all’ultimo piano, pieno di altane. Immaginavo che l’altana grande, che era completamente fatta di travi di legno, un giorno o l’altro sarebbe potuta volare via come un tappeto magico. La sentivo barca pronta a salpare gli ormeggi per andare alla deriva o navigare lungo le tegole dei mille tetti che si vedevano stando lì sopra. Venezia scoperta per la seconda volta. Una seconda Venezia, diversa dalla prima.
Credevo fosse soltanto acqua e canali e gondole e barche e giardini, ponti, pietre, scalini. No. Esisteva una seconda o terza o quarta Venezia, se la guardavo dall’alto. Fatta di coppi rossi, a perdita d’occhio, di terrazzi, altane, poggioli e camini di tutti i tipi. Adoravo questa nuova dimensione. Niente odore di fogna, niente melma, niente topi. Solo campane e campanili, piccioni con i nidi, usignoli, rondini e gabbiani e tanti gatti furbi come Ciro, che ogni tanto miagolavano sospesi in bilico sui cornicioni. Ciro, spavaldo e temerario, mi invitava a fare dei giri con lui. Allora scavalcavo il parapetto dell’altana e mi avventuravo, cauta e guardinga, sopra le tegole che scricchiolavano. Quella sensazione di instabilità e precarietà mi dava uno strano brivido di piacere, come se la sfida fosse un modo per crescere e per riscattarmi dalla mia immaturità. Ogni giorno scoprivo un nuovo tipo di camino. Alcuni erano simili a dei coni gelato, altri erano a canna rovesciata, altri quadrati con un coperchio sulla testa, altri completamente rotondi. A Dorsoduro, in Rio delle Terse, c’era la Casa dei Sette Camini.

Il mio amico Paolo diceva che Venezia aveva settemila camini e un quartiere di spazzacamini.
Quando guardavo il film Mary Poppins e sentivo cantare: «Cam-caminì, cam-caminì, spazzacamin…»,pensavo ai camini di casa nostra. Uguale alla casa dei Banks. Mia madre poteva essere Mary _Poppins. Avrebbe potuto uscire dal camino con la faccia tutta nera e incipriarsela rendendosi ancora più ridicola. A me, a Ciro e a Paolo piaceva da morire quel film. Lo guardavamo decine di volte e ogni volta c’era una nuova scoperta. Durante i titoli di testa si vedeva Mary Poppins su una nuvola. Nel primo piano aveva alla
sua destra l’ombrello con la punta nella nuvola e alla sinistra la borsa, invece nel campo lungo i due oggetti erano scomparsi. Le nuvole! Dal tetto vedevamo anche noi le nuvole. Bianche, azzurre come l’acqua e al tramonto rosa. Provavamo a bucarle con la punta dell’ombrello. Nel film il padre dei ragazzi strappava la loro lettera in otto parti e la gettava nel camino, ma quando Mary Poppins faceva uscire i frammenti di carta dal comignolo questi erano diventati sedici. Brando e io facevamo le prove con i pezzettini di giornale per vedere se si moltiplicavano. Ero affascinata dagli spazzacamini veri. Erano proprio come quelli del film, tutti sporchi di fuliggine, ma non sporcavano nulla di ciò che toccavano. Li pensavo dei maghi. Un giorno chiesi a papà di portarmi nel posto dove vivevano gli spazzacamini. «Il mondo degli spazzacamini deve essere supercalifragilisticospiralidoso», dissi, e a lui venne da ridere. Era intento a bagnare le piante del terrazzo con l’innaffiatoio. Provò a ripetere la parola: «superfrakeralidoso». Io risi. «No, papà, supercalifragilisticospiralidoso». Lo ammiravo, abbronzato dal sole. Abitavamo le stanze all’ultimo piano. Avevamo un bagno di marmo bianco e una stanza rivestita di legno con un sacco di libri che amavo leggere o farmi leggere. Io dormivo in una piccola stanza con la tappezzeria a margherite e una grande finestra che si affacciava su un giardino di pioppi.La biancheria la stendevamo su uno dei terrazzi. A Venezia si stende la biancheria da una finestra all’altra di una calle, di un campiello, di un canale e il bucato non è un segreto. Le mutande, i calzini, i reggiseni sono all’aria. Sventolano come bandiere e dichiarano il carattere dei proprietari. Era una gioia vedere le ampie candide lenzuola gonfiarsi di vento e di sole e sbattere come vele. Io aiutavo la mamma a fissarle al filo con le mollette, in bilico su uno sgabello traballante, la cesta di vimini delle mollette tra le mani.Un rito che amavo, come quando tagliavo i gambi dei fiori a Torcello. Sui terrazzi trascorrevo ore. Mi ero costruita una capanna di cartone che immaginavo essere la casa di Hansel e Gretel. Ciro dormiva lì la maggior parte del tempo, ma nei pomeriggi afosi si bolliva. Per fortuna, papà vi aveva fatto crescere una vite americana che in settembre faceva l’uva e, sotto la vite, i raggi filtravano a stento. Amavo sdraiarmi all’ombra delle foglie sognando di essere la Pastorella con lo Spazzacamino, una fiaba che mi leggeva la mamma la sera: «Tutti e due erano giovani e belli, tutti e due di porcellana, tutti e due fragili e leggeri».

Carmela Cipriani

 

 

 

 

No Comment

Leave a reply

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

eud
Previous post

L’arte a Venezia

Dream of Venice edited
Next post

Dream of Venice